La bevanda che ormai sentiamo tutti come “italiana”, non solo deriva da una coltivazione che viene dall’Estero, com’è noto, ma è stata valorizzata, nel suo consumo, da reali “d’importazione” come i D’Asburgo-Lorena
P aolo Della Mura quella mattina al mercato dei fiori di Castellammare di Stabia (NA) aveva mantenuto la promessa. Circa un anno fa gli avevo chiesto di procurarmi delle piantine di caffé. Sorridente mi invitò nel suo stand: «Allora bella signora, che ne dite, stanotte ne abbiamo scaricato un tir intero». Battendo le mani per la gioia esclamai: «Paolo, beato chi ti sposa!». Rispose: «Signora, sono single ma non per mia scelta». Ribattei: «Vedrai che non passa l’anno che ti rubano, uomini di parola, al giorno d’oggi, sono una vera rarità!».
E non si trattava di una piantina qualunque: gli olandesi, naturalmente attenti alla promozione e al packaging, l’avevano inserita in una divertente tazza da caffé americano, la famosa “mug”, e l’effetto è stato subito recepito dai clienti. Neanche il tempo di esporle in vetrina, sono andate letteralmente a ruba!
Inutile dirlo, il mondo si ferma davanti ad una tazza di caffé. Basti pensare che, ogni anno, sul pianeta si bevono 400 miliardi di tazze, una cifra incredibile: per avere una vaga idea immaginate uno stadio di calcio come se fosse la tazzina più grande del mondo!
Quelli del caffé sono i semi più costosi del mondo, hanno un valore commerciale superiore a quello di derrate essenziali, come frumento, granoturco, riso. Il giro d’affari su scala mondiale ha cifre da capogiro.
Penso che per molti di noi bambini degli anni ’70 il primo ricordo del caffé si ricollega all’immagine della Moka troneggiante sul fuoco in cucina. A quell’epoca la vecchia caffettiera Napoletana, la cosiddetta “Cuccumella”, era già stata sostituita da tempo. Abbandonata in uno stipo, diventò per me un gioco nel montare e smontare i pezzi. Inconsapevolmente mi trovavo tra due oggetti fantastici.
La prima, la Moka, è figlia di Alfonso Bialetti, un artigiano intuitivo di Crusinallo (VB). Bialetti, imparando a fondere l’alluminio in Francia, creò nel 1933 un oggetto di art déco unico. Non avrebbe mai pensato che la sua Moka sarebbe stata usata da tutta l’Italia!
La seconda invece, la Napoletana, era tutto il mondo teatrale che la famiglia De Filippo, attraverso le commedie, aveva infuso nella nostra quotidianità: “Napoli milionaria”, “Natale a casa Cupiello”, “Fantasmi a Roma”, sono solo alcune delle commedie dove l’atto di prendere il caffé è vera scena teatrale, poesia, cultura, filosofia.
«Vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo, una tazzina di caffé presa tranquillamente qui fuori in compagnia di una persona piacevole…», diceva Edoardo de Filippo in “Questi fantasmi”.
Quante volte, incontrando una persona per strada, noi italiani diciamo: «Andiamo a prenderci un caffé». Questo si chiama civiltà, è uno stile di vita che il mondo ci invidia e ammira.
Una gentil donna inglese, Anne Miller, nel 1771 descrisse dettagliatamente in una lettera un ballo alla corte di Re Ferdinando di Borbone e Maria Carolina presso la Reggia di Caserta: «[…] Quando la Regina si accorse che tutta la compagnia aveva cenato, si alzò e si avviò verso la sala del caffé, e così fecero quelli che ne desideravano. La sala è attrezzata proprio come un caffé di Parigi […] alcuni giovanotti con berretti e giacche bianche fanno e servono il caffé».
Ma chi è questa regina così attenta ad offrire il caffé ai suoi ospiti? Maria Carolina D’Asburgo-Lorena, sposa al Re di Napoli e sorella di Maria Antonietta di Francia.
A queste due sorelle austriache dobbiamo il piacere della nostra “tazzulella ’e café”. Furono proprio loro a lanciare in Europa la moda di bere l’infuso del chicco macinato!
Non solo, furono ancora loro a creare quel connubio unico fatto di caffé e cornetto delle nostre memorabili colazioni mattutine.
Eh già, il cornetto (“kipferl”, in tedesco “mezza luna “) fu inventato dai fornai viennesi per festeggiare la sconfitta dell’assedio Ottomano alle porte di Vienna. Mangiare la mezzaluna simbolo del mondo mussulmano significava metaforicamente la vittoria. Seguì la traduzione in francese “croissan” (luna crescente).
I napoletani invece attribuirono al nome del dolce viennese, portato dalla loro nuova Regina, il simbolo scaramantico del cornetto portafortuna! Paradossalmente da una sconfitta nasceva un unione indissolubile: il cornetto sarà pure un dolce cristiano ma il caffé è totalmente mussulmano!
Parigi, Vienna, Venezia, Napoli, il primo bar, bottega del caffé o coffa, come viene ancora chiamato in Medio Oriente, nasce nel 1554 a Costantinopoli, l’odierna Istanbul. Da questa città veniva Birsen Saylam Genec. Fummo fortunati non solo di conoscerla ma anche di averla come vicina di casa. Lei, bella come la principessa di “Mille e una notte”, non solo preparava il caffé turco «nero come l’inferno, forte come la morte, dolce come l’amore» ma leggeva anche i fondi ottenuti con la bevanda.
Facevo “carte false” per spiare gli incontri ai quali veniva invitata mia madre insieme ad altre signore: il caffé veniva fatto bollire in un pentolino speciale, detto “jesvee”, e poi versato nelle tazzine. Bisognava berlo lentamente fino a quando i fondi non si sentivano arrivare vicino alle labbra. Allora e solo allora le tazzine venivano capovolte sul piattino e fatte girare per tre volte verso sinistra. Ricordo che tra tutte le tazze solo una diede delle figure chiare, una donna in piedi e una persona in ginocchio. La tazzina era quella di una signora che aveva un fratello gravemente malato. Si commosse, si riconobbe in quella donna, lei in piedi che con tutte le sue forze cercava in ogni modo di rialzare il fratello, prostrato dalla malattia. Nessuno sapeva del dolore che l’affliggeva, tutte le donne presenti si strinsero attorno a lei con grande solidarietà.
Anny Pellecchia
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