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Ci ha lasciato Ugo Pellecchia, il fiorista gentiluomo

Ci ha lasciato Ugo Pellecchia, il fiorista gentiluomo

Domani, continuerò ad essere. Ma dovrai essere molto attento per vedermi. Sarò un fiore o una foglia.Sarò in quelle forme e ti manderò un saluto. Se sarai abbastanza consapevole mi riconoscerai, e potrai sorridermi. Ne sarò molto felice.

Thich Nhat Hanh

Un uomo mi porse l’urna tra le mani, entrai in macchina, era lì tra le mie braccia, destinazione il giardino della sua casa, della nostra casa, alle porte della Costiera Amalfitana. Guardando fuori dal finestrino risentivo le sue parole: «Quando vidi quel pezzo di terra proiettato nel mare me ne innamorai». E in quell’innamoramento non c’era solo l’idea di creare un piccolo paradiso, c’erano anche mia madre, mia sorella ed io. Come mi sentivo? Nonostante il cuore mi facesse tanto male sentivo il mio corpo come uno scrigno colmo delle ricchezze più belle. Lo aveva colmato mio padre durante tutta la mia vita. Era un vulcano di energia, di positività, di lavoro, di forza, di saggezza antica e amore per il prossimo.

Era un giardiniere, un fiorista, un artista… se chiudo gli occhi vedo le sue mani rugose porgermi le piante come gioco: «Sono piccole agavi, piantiamole nei vasetti» oppure, le talee del prato Stenotaphrum appena arrivate dall’Africa: «È un nuovo prato», diceva trionfante. «Si piantano orizzontalmente nel terreno, soffocheranno tutte le erbacce! Sarà così morbido che potremmo camminarci scalzi!». Ogni pianta nuova che portava in giardino era una storia meravigliosa di una terra lontana! «Guarda, la Yucca elephantipes, si chiama così perché la base del tronco assomiglia a una zampa di elefante». Nella vasca dei pesci c’era un mondo fantastico, dove le nostre barchette di plastica navigavano tra gigli d’acqua con la loro buffa struttura spugnosa, fiori di ninfee, papiri e rane. Su di un pezzo di legno inchiodato ad un asse, scrisse “Al boschetto”. Aveva lasciato una parte del giardino con le piante autoctone, un bosco buio di querce, carrubi, ulivi, fiori d’acanto. Conduceva ad una piccola chiesetta sconsacrata, un mondo incantato dove noi bambini creavamo giochi infiniti. Nella serra costruita con le sue mani una Passiflora quadrangularis era protetta come una fata. E poi c’era la limonaia, dove le notti di primavera salivamo al terrazzamento più alto del giardino, tenendolo per mano, ridevamo felici perché erano arrivate milioni di lucciole e tutti i fiori di zagara, schiudendosi, impregnavano l’aria di profumo: i cani scodinzolavano tra le nostre gambe, la Natura tutta rideva con noi, perché la gioia era tutta lì, tra fiori di zagara nel buio illuminato da lucciole e stelle!

Il giardino era anche il suo laboratorio, ogni giorno tagliava foglie di palma, banani, papiri, bacche, rami per creare poi in negozio creazioni floreali inedite. Un pioniere dell’arte moderna floreale, si aggiornava continuamente comprando libri di botanica, arredo giardini, composizioni. Stava creando, senza accorgersene, anche una biblioteca di vero pregio. Tutte le piante del giardino venivano riprodotte e diventavano a loro volta altri giardini. Instancabile era la sua sete di conoscenza, quando varcai con lui i cancelli di “Euroflora” rimasi senza parole, camminammo talmente tanto che i piedi si riempirono di vesciche, per scusarsi mi comprò un paio di scarpe nuove, morbide come le nuvole! Ma che importava, avevo visto tutte le piante del pianeta, e conosciuto tutti i suoi amici del settore florovivaistico d’Italia!

“Ugo Internazionale”, così lo chiamavano, perché non si perdeva una fiera. Visitò mezzo pianeta: la Foresta Amazzonica, i boschi di Sequoie, le foreste asiatiche ricche di orchidee, il mistero dell’arte dei bonsai e ikebana in Giappone ecc.

Ogni volta che tornava, la casa era piena di regali esotici, ma la cosa più bella erano i suoi racconti fantastici sulle piante, che regalava non solo a noi ma anche a tutti i clienti del negozio. Il negozio era un faro per tutta la città e la provincia, la sua comunicazione era dirompente, galante con le signore, amico divertente con gli uomini, tutti diventavano senza sforzo suoi amici, e anche i professionisti – pur continuando a dargli il lei – lo chiamavano nonostante tutto “Ugo”. Era l’era delle tv private, voleva talmente far conoscere il mondo delle piante che decise di creare una trasmissione sul verde, sicuramente fu una delle prime del genere, anche in questo fu un pioniere. “Idea Verde” era talmente seguita che la gente veniva in negozio per conoscerlo. Luisa Rivelli lo invitò alla sua trasmissione “Il mercatino del sabato”, su Rai 1 per parlare di piante e fiori.

Quello che stupiva era la facilità con cui faceva ogni cosa. Nessuno però sapeva che dietro quell’esplosione di energia, c’era invece un’infanzia dura e solitaria senza genitori, la morte tragica della sorella Annamaria, la guerra, i bombardamenti e lo stupore di essere ancora vivo nonostante tutto. Era la voglia di affermazione, di essere amato da tutti, lui il bambino che non aveva mai conosciuto le carezze di sua mamma. Non si lamentava mai, e se mi vedeva piangere o triste diceva semplicemente: rialzati e cammina. Si può sbagliare una volta, se sbagli ancora vuol dire che sei recidiva. E così facevo di tutto per non deluderlo, i suoi silenzi erano peggio di ogni punizione.

La Natura lo chiamava continuamente per farsi ammirare, ricordo durante la preparazione di un matrimonio, mi indicò una radura dove milioni di achillee ondeggiavano nella brezza del primo mattino: «Vai», disse, «raccoglimene un bel fascio, la più bella composizione è quella di Dio giardiniere». Ed aveva ragione, ancora oggi quando cammino o sono in macchina guardo con i suoi occhi le incredibili varietà di composizioni di fiori ed erbe spontanee che mi circondano, aggrappate ai muri, lungo i bordi delle strade, sulle spiagge, in collina.

Mia madre, mia sorella Olimpia ed io lo abbiamo amato tantissimo, poi quando mia madre si ammalò non c’era giorno che non le portasse un fiore. Vivemmo l’inferno della malattia in un mondo di amore. Quando la sua sposa volò in cielo tutte le sue energie furono solo per ricongiungersi a lei. Dopo dieci mesi, il giorno della Festa della mamma, lo “scugnizzo del Vesuvio” si accasciò davanti al Teatro Verdi di Salerno, la sua città del cuore.

Con mio figlio Stefano continuammo a lavorare per tutte le mamme del mondo, poi quando ogni ordine era stato portato a termine finalmente lo raggiungemmo… se avessimo abbandonato i clienti in un giorno di festa non ce l’avrebbe mai perdonato. Del resto questa dedizione al lavoro fu premiata con la nomina di Cavaliere e Maestro del Lavoro.

Arrivati davanti al cancello del giardino, il cane, come se avesse capito, per la prima volta non ci venne incontro. Lo trovai il giorno dopo davanti la finestra di mio padre, raggomitolato col muso tra le zampe. Una nuova alba sorgeva in giardino, le piante rilasciavano nell’aria vapori accarezzate dai primi raggi di luce, tutto era silenzio, il mare blu innanzi a me, lo stesso scenario che vide mio padre la prima volta.

Anny Pellecchia

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